Quella volta che intervistai Tia Sangermano ed ebbi paura che si suicidasse come Giovanna Pedretti a causa del massacro social

Tia Sangermano e Giovanna Pedretti

di Enrico Fedocci

GLI INFLUENCER CHE SCIMMIOTTANO I GIORNALISTI SONO I NUOVI GLADIATORI DEL COLOSSEO CHE FORNISCONO AGLI HATER LA VITTIMA SACRIFICALE DEL GIORNO, CERCANDO TRA I PERSONAGGI PIU’ DIVISIVI SUL WEB  –

La drammatica vicenda di Giovanna Pedretti induce ad una serie di riflessioni sulle cause e gli effetti; sul ruolo dei media; sui social e i cosiddetti influencer che ormai, da chi naviga, sono considerati più autorevoli dei media tradizionali. Innanzitutto il primo pensiero va alla famiglia di Giovanna Pedretti, a sua figlia, al compagno di una vita, suo marito Nello.

Subito dopo, da collega che lo stima – per quello che ha fatto in tanti anni da serio e capace professionista – il mio pensiero va anche a Jari Pilati che si è trovato in una situazione difficile, semplicemente svolgendo il suo ruolo di cronista, come sempre ha fatto, guadagnandosi la stima di telespettatori e giornalisti. È naturale che pensi a lui, visto che lo conosco. Non deve essere semplice apprendere che la persona che hai intervistato poco prima si è tolta la vita, seppure per la pressione esercitata da altri, attraverso offese, insulti gratuiti… Insomma, conosciamo bene la “gogna social”.

Tia Sangermano durante la mia intervista

La storia di Giovanna Pedretti mi ricorda tanto una situazione analoga, quando, ormai 9 anni fa, intervistai dopo le devastazioni dei “no expo” Tia Sangermano, un 20enne che, dopo che la città fu messa e ferro e fuoco, esaltò le azioni dei manifestanti violenti, mettendoci pure la faccia, proprio mentre durante una diretta fermavo persone a caso per un commento.
Lo sdegno (ma anche la derisione) per le parole di quel ragazzo fu qualcosa di incredibile e non preventivato. La sua intervista andò integralmente in onda proprio perché eravamo in diretta, quindi non si poteva alleggerire neanche volendo il peso di quelle parole. Due giorni dopo partii per il Mar Rosso per andare a fare immersioni. Fu una vacanza da dimenticare: tutto il giorno sullo smartphone per cercare di capire quale deriva i social stessero prendendo, visto che Tia era diventato l’obiettivo preferito degli haters.
Nel frattempo l’intervista era diventata virale, nacquero parodie, remix, se ne parlò in televisione, sui giornali. Tia si scusò, affidando le proprie parole ad un giornalista di “Repubblica”. Non servì a niente: il massacro era in corso, pomodori e verdure virtuali continuavano a colpirlo, sommergendolo. Anche il fatto che fosse stato bocciato a scuola diventava un elemento per cercare di umiliarlo, frasi vergognose scritte da chi, magari, a scuola non c’era nemmeno andato. Neanche i suoi genitori si salvarono: pure loro nel tritacarne.

Fu lì, dopo giorni e giorni di gogna social, che temetti per lui. Temevo potesse non essere in grado di gestire quella violenza comunicativa. Mi sedetti sul letto – nonostante mi stessero aspettando per una immersione – e scrissi un pezzo in cui stigmatizzavo ciò che stava avvenendo, arrivando addirittura a dirmi pentito di quella intervista, cercando di umanizzare quello che era diventato il bersaglio della frustrazione di tanti, raccontando pure, visto che il suo rendimento scolastico stava così a cuore degli haters, che pure io ero stato bocciato ed ero stato un asino a scuola.
“Sia mai – pensavo – che fornisco a questi fuori di testa un nuovo obiettivo, cioè me medesimo”. E così fu: massacrarono pure me, ma almeno abbandonarono la preda principale.
Ogni tanto penso a Tia, immagino che mi abbia maledetto in quel periodo, che abbia maledetto il momento in cui ha deciso di rispondere alle mie domande. Mi domando come sia proseguita la sua vita dopo quei fatti che lo avevano travolto. Io sono stato più fortunato di Jari: i giorni che passavano mi hanno dato il modo di capire, poco alla volta, che la situazione stava degenerando e che era arrivato il momento di intervenire, cercando di rimediare ad un effetto collaterale del mio lavoro. Lui, Jari, non ha avuto lo stesso tempo a disposizione.

Jari Pilati e Giovanna Pedretti

Alle 19 l’intervista è andata in onda, dopo poco tutto è accaduto, Giovanna si è uccisa.
Questa vicenda mi ha impensierito parecchio e ho cercato di analizzare l’accaduto, anche con un occhio alla mia esperienza. Credo che un conto sia informare, come ha fatto correttamente Jari Pilati, ponendo delle domande. Un altro conto sia dare in pasto ai follower la vittima sacrificale del giorno. Bisogna chiarire i ruoli perché altrimenti questo diventa un far west. La società comunicativa è complessa, ci vogliono professionisti che facciano informazione e che non vendano un prodotto – magari se stessi – attraverso un post. L’obiettivo principale di chi riferisce i fatti al lettore deve essere quello di informare, anche trattando notizie minori, non promuovere se stessi sempre e solo su argomenti che solleticano la pancia del Paese. Ed è proprio ciò che fanno questi “personaggetti” che, in prima battuta, non sono riusciti a sfondare nel mondo dello spettacolo.
Purtroppo siamo tornati indietro di 2000 anni: certi influencer sono i nuovi gladiatori di un “Colosseo” digital: mentre sugli spalti ci sono hater a frotte che vogliono la loro preda, loro si ammantano della veste da giornalista investigativo e ogni giorno “nasano” il personaggio più divisivo e quindi lo “infilzano”, a favor di pubblico. Costi quel che costi.

GOGNA SOCIAL PER MATTIA SANGERMANO, “IO CHE L’HO INTERVISTATO DICO: BASTA LINCIAGGIO SU TIA”

6 risposte a “Quella volta che intervistai Tia Sangermano ed ebbi paura che si suicidasse come Giovanna Pedretti a causa del massacro social

  1. Ma perché l’attenzione è tutta verso chi ha semplicemente sollevato un dubbio in merito alla veridicità di una notizia ripresa (creata) indistintamente da tutti i media senza mezza verifica? Perché non ci domandiamo se è giusto che (pseudo) notizie vengano riprese, messe in rete e condivise dai media e si pretenda pure che nessuno abbia un minimo di senso critico? La povera signora è stata prima vittima di chi l’ha elevata a eroina senza fare le opportune verifiche, dai frustrati hater che bisogna identificare e da chi sollevando dubbi non ha pensato potesse scatenarsi quanto accaduto. A ognuno il suo

  2. domanda ma la rai come ha fatto a sapere della Pedretti dalla Stefania Lucarelli?, vi siete telefonati?spendere tempo e soldi per un intervista da barbara D’Urso. Io se fossi stato lei con la sua esperienza l’intervista non l’avrei fatto

  3. Le faccio i complimenti per questo articolo, pochi, credo, si preoccupano del punto di vista di ha svolto l’intervista, di come possa stare dopo quello che è successo. Grazie.
    Penso che i social siano lo sfogo di tante persone che non hanno la possibilità di farlo in altro modo (lavorando fisicamente, ad esempio) e che abbiano reso molte altre persone fragili e insicure. Qualche ora in fabbrica o nei campi potrebbe servire a tutti alle vittime a fortificarsi e ai carnefici per pensare ad altro.

  4. Grazie per questa pacata e dettagliata analisi dei fatti.
    Ognuno ha le sue responsabilità. I cosiddetti influencer sono un male ormai consolidato della società dei consumi a tutti i costi.
    Spesso sono persone senza alcuna qualifica che hanno fatto del vendere la loro ragione di vita e costruzione di identità.

  5. La ringrazio per le parole sagge e coraggiose che scrisse all’ora (su Tia Sangermano) ed ha scritto oggi su Giovanna Pedretti. Il diritto di informazione è inalienabile, sia per chi la somministra, sia per chi ne usufruisce. Il diritto d’epressione, pure. Anche se Giovanna Pedretti avesse inventato tutto, non ha danneggiato nessuno. Non ha fatto nomi, ha solo evidenziato un brutto episodio. Se è reale, ha fatto bene. Se l’ha inventato, ha semplicemente attirato l’attenzione su una pesante discriminazione che esiste e che, se non è avvenuta nel suo locale, sarà senz’altro accaduta in un altro, senza che il titolare avesse il coraggio di esporsi. Per cui, ha svolto un sevizio prezioso, anche solo spingendoci ad interrogarci sull’argomento. Quello che mi lascia basita, è la necessità degli “intransigenti” a dover sempre puntualizzare sulla veridicità di tutto ciò che passa sui social. I social sono indispensabili, soprattutto nei Paesi in cui non c’è la libertà di espressione. Ma sono anche “luoghi” dove le idee possono essere volatili, effimere. Anche “discutibili”. Come 4 chiacchiere al bar. E con questo spirito dovremmo frequentarli. Sennò, saremmo costretti a prendere sul serio anche tutte le somarate (che spesso non stanno né in cielo né in terra) sparate ogni giorno sul web dai nostri politici. E sarebbe il delirio…

    • Sono d’accordo su molti punti da lei toccati. Io credo che chi scrive sul web possa anche avere un profilo non immediatamente riconducibile alla persona, ma anche gli alias dovrebbero essere riconducibili ad una persona reale (ovviamente per le autorità). Chi vuole scrivere, anche sotto falso nome, deve dimostrare di essere una persona reale. Affinché ognuno si assuma la responsabilità di ciò che dice.

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