Processo Bossetti, Marita Comi alla gogna “Autopsia” dell’intimità davanti al pubblico

di Enrico Fedocci

Non si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Avrebbe potuto, in quanto familiare dell’imputato.

Sono quasi le 16 di mercoledì 24 febbraio quando Marita Comi fa il suo ingresso in aula al Tribunale di Bergamo, durante il processo al coniuge accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, di Brembate Sopra, uccisa il 26 novembre del 2010.
Marita abbiamo imparato a conoscerla in questi anni: bella – bellissima! – voce pacata, tratto posato, estremamente elegante nel porgersi, di una signorilità innata. Uno stile non di censo, ma di pancia.

Marita Comi ha subito risposto alle domande della pm Letizia Ruggeri. Domande pronunciate dal magistrato con voce ferma e distaccata. E la moglie dell’uomo accusato del delitto della ragazzina non ha avuto un attimo di esitazione nel dare spiegazioni.

Per chi la guardava dal pubblico, naturale era osservare anche il marito seduto in prima fila mentre ascoltava sua moglie. Uno sguardo a lei, poi a lui, ancora l’uno e l’altra insieme. In una sequenza veloce della testa che si spostava da destra a sinistra, con un’idea fluttuante nella capoccia: “Come sono diversi Marita Comi e suo marito Massimo Bossetti, ma come hanno fatto a mettersi insieme?”.
Eppure, la difesa di questa donna nei confronti di quest’uomo è stata appassionata, convincente, coraggiosa, per niente debole, assolutamente complice, volendo usare il termine nell’accezione più positiva, come sinonimo di intesa, affiatamento.

Nessun tentennamento neanche quando sono arrivate le domande più scomode, quelle più imbarazzanti: domande rivolte alla 41enne – capelli lisci, viso senza un filo di trucco, sempre composta – non, come ci si aspettava, dalla pm Letizia Ruggeri, ma dall’avvocato di Parte Civile, Enrico Pelillo.
L’argomento, scivoloso, era quello delle navigazioni su internet alla ricerca di siti pornografici.
“Sono stata io  a cercare certe cose – ha risposto Marita senza pensarci troppo – A volte con Massimo, a volte da sola”.
Alla contestazione da parte dell’avvocato che snocciolava termini imbarazzanti, che forse ci si aspetterebbe partoriti da una fantasia maschile, “ragazza rossa con vagina rasata, ammucchiate con bionda”, etc, etc, etc, lei non batteva ciglio e rispondeva a ripetizione: “Io… sempre io. Ma guardi, avvocato, che ho cercato anche di peggio, se vuole proprio saperlo…”
Non faceva a tempo a rispondere, Marita Comi, che l’avvocato Pelillo, direi quasi con un tono sadico, continuava ad elencare chiavi di ricerca a luci rosse. Non è stato sufficiente che la donna ripetesse più e più volte ancora, “Io, io. Sempre io. Cercavo di tutto, sa? Sì, ero proprio io”. Lui andava avanti, indomito, imperterrito. Fino a quel “Come rimorchiare una ragazza in palestra”. Certo, chi se non un uomo potrebbe scrivere una cosa del genere su Google? Deduzione logica: se non è stata lei, una donna, deve per forza essere stato lui, un uomo: quindi, Bossetti, il “mostro”. Peccato solo che il carpentiere di Mapello proprio non ci andasse in palestra. E se è vero, quindi, che a nulla gli sarebbe servito imparare su internet come corteggiare una ragazza tra un allenamento e l’altro è anche vero che magari chi ha fatto quelle ricerche hard su internet  non le ha fatte per uccidere.
Ma vabbè. Chissà se i giudici hanno colto questo autogol della Parte Civile.

Dopo avere osservato a lungo Marita Comi, dopo averne scrutato gli occhi, il movimento della testa, la gestualità imbarazzata davanti a domande così intime, lo sguardo di chi sta scrivendo questo articolo si abbassava, quasi a non voler indugiare anche coi propri occhi su una donna martoriata da domande private, privatissime, domande impronunciabili alla presenza di estranei.
Già, distogliere lo sguardo per non appesantire ulteriormente, per non far sentire i propri occhi addosso ad una donna che parlava di cose personali era un “devi morale”. 
Legittimo e doveroso è stato porre queste domande, certamente. Sadico, però, farle con quel tono, rendendo così il tutto pruriginoso. Ma ancor più crudele, da parte del presidente della Corte d’Assise, consentire che a queste domande Marita Comi dovesse rispondere davanti a tutti: pubblico e giornalisti.

Qualche mese fa, quando la patologa forense Cristina Cattaneo illustrò i risultati dell’autopsia su Yara Gambirasio, proiettando in aula le immagini del suo corpo martoriato, pubblico e giornalisti furono invitati ad uscire. Bisognava rispettare – ci mancherebbe altro – la dignità di quella bambina anche da morta. Ieri, in aula, abbiamo assistito allo scempio di una persona viva, all’autopsia dell’intimità di una coppia, di una donna, di una moglie, di una mamma. Una mamma che dopo la sua deposizione sarebbe dovuta tornare a casa dove avrebbe guardato in faccia i suoi figli, sapendo, magari, che quelle cose dette in aula, attraverso i giornali, i pettegolezzi, sarebbero arrivate in tempi brevi ai suoi bambini.

Anche davanti a quelle domande legittime, ma poste come se Marita fosse alla gogna, lei ha risposto senza esitare un momento. Di certo la sua deposizione avrebbe avuto lo stesso valore per il processo se ad ascoltare le risposte ci fossero stati solo il pm, gli avvocati e i giudici: ovvero chi deve accusare, difendere e giudicare. Nessun’altro.