I GIORNALISTI DOVREBBERO ESSERE COME I MEDICI: NON FARSI COINVOLGERE EMOTIVAMENTE DALLE STORIE CHE RACCONTANO. COSI, PER ME, NON E’ STATO NEL CASO DELLA MORTE DI YARA. HO PERSO UN MINIMO DI LUCIDITA’ E DISTACCO DAL FATTO DI CUI ERO CRONISTA. MA QUASI CINQUE ANNI A BREMBATE MI HANNO INSEGNATO TANTO DA UN PUNTO DI VISTA PERSONALE. E MI HANNO FATTO CRESCERE ATTRAVERSO IL CONFRONTO CON PERSONE STRAORDINARIE COME DON CORINNO SCOTTI
di Enrico Fedocci
Un pastore che ha saputo condurre il suo gregge in un momento drammatico, la morte di Yara Gambirasio. Don Corinno Scotti, sacerdote nella piccola comunità di Brembate Sopra, lascia la guida della parrocchia che per 13 anni anni ha amato. Capelli bianchi e folti, poco incline alle smancerie, ha fatto della sostanza una cifra distintiva nel suo essere vicino alla gente, ai bisognosi, a coloro che si sono smarriti. E proprio la gente di qui, di questo paese della Bergamasca, il 26 novembre del 2010 si è smarrita, confusa, scossa, turbata, raggelata dalla scomparsa di una bimba, conosciuta ed apprezzata da tutti. Rapita ed uccisa da chi, ancor più, aveva perso la strada dell’amore verso il prossimo e verso se stesso.
Quando arrivai a Brembate, poco dopo il delitto, quest’uomo sicuro di sé, gentile con tutti, ma schivo nei confronti di telecamere e giornalisti, mi era poco simpatico. Il suo atteggiamento mi suggeriva supponenza, scortesia. Nulla di più sbagliato. E’ stato un giorno dello scorso anno che ho capito che le mie erano valutazioni errate.
Il presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti, era stato arrestato da pochi giorni. Volevo intervistare Don Corinno Scotti. Lasciai il cameraman fuori dalla chiesa, entrai e trovai Don Corinno – come era sua abitudine – seduto sulla seconda panca davanti all’altare. Pensieroso, intento nelle sue preghiere. Pensavo non mi rispondesse, come tutte le altre volte quando ero arrivato con il microfono in mano e l’operatore dietro di me pronto a riprendere. No, questa volta, no. Appena mi vide fece cenno di sedermi, accennando un sorriso. Spostò il breviario che era sulla panca accanto a lui e mi fece posto.
Ero entrato per chiedergli una intervista, ma la sua concentrazione, il suo dedicarsi alle Sacre Scritture, colpì me così poco incline alla preghiera. Appena seduto non ricordavo più che cosa avrei dovuto chiedergli. Un attimo di esitazione, poi, abbandonando l’idea dell’intervista, gli dissi: “Don Corinno, sono venuto per lavoro, ma – già che sono qui – vorrei chiederle un’altra cosa, vorrei condividere con lei alcune considerazioni che ho fatto in questi giorni”.
E in quei giorni a colpirmi – erano passati quasi 4 anni dalla morte di Yara – non era il dolore della famiglia della 13enne, che già conoscevo bene e su cui avevo riflettuto molto, ma l’apparente normalità di Bossetti, del suo mondo. Mi domandavo e ridomandavo come fosse possibile che un uomo con una bella famiglia, tre figli piccoli, una moglie, potesse commettere un delitto del genere, sempre che sia stato lui ad uccidere come sostengono gli inquirenti. Aggiunsi: “Se un uomo che ha tutto, affetti, futuro familiare, gioie, fa una cosa del genere… cosa devo pensare? Come è possibile? Io non ci capisco più niente”.
Parlammo a lungo io e Don Corinno quel pomeriggio, sfiorando momenti di grande commozione.
Gli confidai della mia difficoltà di cronista di immergermi ancora in storie drammatiche e di raccontare, oltre ai fatti, il dolore dei protagonisti. Anche i medici, come i cronisti, devono cercare di non lasciarsi fagocitare dal dramma di cui si occupano. E noi siamo così, siamo come dei medici: necessario riferire ciò che accade nel Paese, soprattutto quando accadono le cose brutte, perché si abbia un termometro di cosa avviene ed intervenire, come popolo civile, laddove si può. Solo durante il fascismo c’era il divieto di parlare di cronaca nera e così il Ministero della Cultura Popolare censurava, perché bisognava dire che tutto andava bene.
Così l’informazione è una necessità. A volte fastidiosa, soprattutto per le vittime di casi di cronaca nera e le loro famiglie. Un “male” necessario, direi piuttosto. Per restare lucidi ed obiettivi rispetto ai fatti bisogna non lasciarsi coinvolgere. Non è cinismo il nostro, è istinto di sopravvivenza ed esigenza di rimanere al di sopra delle parti.
Nel caso della storia di Yara non sempre sono riuscito ad essere distaccato. Era inevitabile. Per quattro anni ho vissuto gomito a gomito con un’intera comunità. Vedendo – anche se da lontano – il dolore della famiglia, della madre, dei fratelli della ragazzina. Ad un certo punto, subito dopo il ritrovamento del corpo, ho cominciato a sentire quel dolore anche un po’ mio: Yara diventava poco alla volta mia sorella, mia figlia, la bambina del piano di sotto. Insomma, qualcuno di familiare.
Quel giugno 2014, il ritorno a Brembate dopo l’arresto di un sospetto mi ha riproposto gli stessi interrogativi di tre anni prima. Ma in questa storia assurda, a quel punto, al dolore dei familiari della ginnasta, si univa quello di un’altra famiglia con figli troppo piccoli per capire ed elaborare. Altre persone incolpevoli si trovavano catapultate in un dramma.
Ed è stato in quella occasione che Don Corinno, dopo avermi scansato e driblato per anni nella mia veste di giornalista, ha aiutato l’uomo che si spogliava dei panni professionali a mettere a fuoco questioni che non hanno risposta.
E’ per questo che domenica, nel giorno della sua ultima messa in quella comunità, ho deciso di andare a salutare Don Corinno. La chiesa era gremita, gioiosa, riconoscente ad un uomo che, dopo aver fatto per anni il missionario in Ecuador, si è trovato a gestire emergenze spirituali ancor più grosse nella piccola e tranquilla Brembate. L’emergenza di una cittadina che si sentiva smarrita davanti a qualcosa di incomprensibile come il delitto di una bambina. Uccisa, se fosse confermata l’accusa, da uno di loro, da una persona cresciuta in quelle strade.
E domenica, mentre ero seduto tra quelle panche con gli altri parrocchiani, mi sono sentito orgogliosamente uno di loro che salutava il proprio pastore.
Don Corinno dall’altare questa volta non ha parlato di Yara, nonostante in chiesa ci fosse la madre. E forse non lo ha fatto volutamente. Non c’era bisogno di nominarla. I suoi occhi, gli occhi di Don Corinno, parlavano di lei e i parrocchiani lo hanno capito perfettamente. La malinconia per quella bimba sottratta all’ovile si legge perfettamente nello sguardo di questo sacerdote missionario. In ogni momento. Anche quando sorride e si rivolge ai bambini del catechismo, contento di vederli lì – almeno loro, se non Yara – in chiesa, gioiosi ed accuditi dalla comunità e dalle loro famiglie.
Lo hanno ringraziato i suoi fedeli, in maniera molto eloquente. Io lo voglio salutare scrivendo queste poche (o tante!) righe. Perché se è vero che la storia di Yara ha cambiato il mio modo di essere cronista, Don Corinno, con le sue parole mai banali, sempre di speranza, con il suo esempio, ha cambiato il mio modo di essere uomo. E di questo lo ringrazio. Ripromettendomi di continuare a vederlo anche quando sarà al Santuario della Madonna di Levate dove andrà per dedicarsi a se stesso e alla preghiera. Che poi, in fondo, è la stessa cosa.
GUARDA IL SERVIZIO ANDATO IN ONDA NEL TG