La tragedia di Corinaldo e quelle giovani vittime che non dimenticherò mai

La figlia di Eleonora Girolimini bacia la bara della mamma

di Enrico Fedocci
Da qualche giorno mi sento strano. Sono tornato ormai da una settimana dalle Marche dove ho seguito i fatti di Corinaldo, la tragedia in discoteca che è costata la vita a sei persone. Cinque giovanissimi e una mamma di 39 anni.
Ad altre decine di adolescenti, se non centinaia, la ferita, per quando non letale, resta profonda: vedere morire dei coetanei, essere in quella mischia mortale, deve essere un ricordo terribile.

L’uscita di sicurezza della discoteca Lanterna Azzurra

Per quanto mi riguarda, ricordo la telefonata alle 6.30 dell’8 dicembre da parte del mio collega Fabio Tricoli. Addormentato, ho sentito solo alcune parole: “6 morti, calca, discoteca, giovanissimi. Parti”.
Mi sono alzato istantaneamente, ho fatto la doccia, la valigia. Senza nessun indugio, come mi era capitato tante altre volte: Nizza, Berlino, L’Aquila, Arquata del Tronto, Monterosso, Viareggio. Alle 6.52 ero già in macchina, destinazione Corinaldo. Neanche una sosta. Durante il tragitto una nuova telefonata di Fabio, dalla redazione “Da Bologna è partito Zuffi, arriverà prima di te, quindi tu prosegui per Ancona all’ospedale, ci sono 7 feriti tra la vita e la morte. Sono adolescenti, la situazione è drammatica”.
Alle 10.55, pienamente consapevole di ciò che stavo vivendo, sono arrivato all’ospedale Torrette di Ancona, dove mi aspettava la mia troupe, due ragazze tra gli operatori più bravi con cui abbia mai lavorato: Lorella Tacconelli, cameraman raffinata nelle riprese e nel montaggio ed Alessandra Comi, assistente preziosa.
Subito in diretta, notizie frammentarie, le corrispondenze durante le tante edizioni straordinarie. Così il primo giorno, così il secondo. Poi dirette per tutti i telegiornali Mediaset per giorni: Tg5, Studio Aperto, Tg4, i tg ogni mezz’ora per Tgcom24.
Il rapporto con le famiglie. Il tentativo di non essere invadenti, ma la necessità di raccontare ciò che stava avvenendo. Tutta Italia piangeva le vittime e faceva il tifo per chi era appeso a un filo in terapia intensiva con l’incubo danni cerebrali sullo sfondo.
Le prime dichiarazioni dei genitori dei feriti, il durissimo momento del riconoscimento delle vittime, il nulla osta per la restituzione delle salme alle famiglie, la data dei funerali.

L’intervista ad un amico di Emma: “E’ un’esperienza che mi porterò con me fino quando, appunto, morirò anche io”

Ed è lì che mi sono fregato. E’ lì che è arrivato il momento in cui – questa volta, purtroppo – il distacco del cronista davanti al dolore degli altri ha ceduto il passo all’uomo.
E’ per questo che non dimenticherò facilmente questa storia e quel momento. Era giovedì 13 dicembre. Funerale di Emma Fabini, il primo dei 6 funerali. Era previsto per le 11.30, Chiesa del Portone Santa Maria della Neve, a Senigallia. Io, Lorella ed Alessandra siamo arrivati mezz’ora prima. Tutto pronto. La gente camminava silenziosa. Tanti giovani. Tra loro uno di cui non conosco il nome. 15 anni. Mi avvicino a lui, prego Lorella di non inquadrarlo in viso, anche se Lorella queste cose le sa già da sola. Puro scrupolo.
E’ minorenne, quindi, meglio prestare la massima attenzione. In questi casi le domande sono sempre banali. Difficile fare una domanda intelligente. Cosa vuoi chiedere a una persona che sta vivendo un dramma simile? Questo ragazzino era presente quella sera in discoteca, aveva visto tutto, conosceva Emma, stava andando al suo funerale. Che cosa vuoi chiedergli di sensato? D’altra parte non è importante ciò che chiedi, ma è importante la risposta che viene data. E l’intervistato, in situazioni simili, sa già cosa vuole dire. A volte l’intervista ha un effetto quasi psicoanalitico, catartico, di proiezione all’esterno del proprio dolore. Ne parli, lo riconosci e lo allontani da te. O, quantomeno, lo razionalizzi. 

Emma Fabini, 14 anni. Una delle sei vittime

E di questo ragazzino, che non dimenticherò mai, io ho ben presente l’emozione, l’educazione, la voce quasi tremante. Ma le sue parole erano un resoconto chiaro e straziante insieme: “Io non ho ancora ben realizzato ciò che è successo. – mi ha detto subito – non penso che sia normale per ragazzi della mia età vedere quello che abbiamo visto”. E poi: “non so neanche come sono riuscito a venirne fuori incolume, senza graffi, senza niente”. Quindi, la staffilata finale al distacco da cronista: “E’ una esperienza che non scorderò mai. E’ un’esperienza che mi porterò con me fino a quando, appunto, morirò anche io. Sono cose che non si scordano con il tempo”.
Avrei voluto abbracciarlo quell’adolescente sconosciuto, tanto mi è arrivato dritto all’anima. (Se volete, in fondo alla mia testimonianza scritta troverete il video e potrete vivere la mia stessa emozione nell’ascoltarlo). Un moto di commozione e poi via, era il momento della diretta con Tgcom24.  Un collegamento tranquillo, il punto sulle indagini, ma io mi trovavo ad un funerale, quindi la cronaca di ciò che stava accadendo in quell’istante. Il funerale di Emma, appunto, 14 anni, uccisa mentre cercava divertimento con i suoi amici dentro una trappola.

Un manifesto funerario ricorda Emma

Alle mie spalle c’era un manifesto funerario, anzi, ce n’erano diversi. Ma io ho letto quello che mi aveva colpito di più, quello che mi aveva consentito di capire di più di questa ragazza, proprio mentre lo mostravo in tv. L’annuncio funebre della scuola, il Liceo Classico Statale Giulio Perticari:
Il Liceo Classico Perticari ricorda con commossa partecipazione di tutta la comunità – leggevo in diretta ai telespettatori – la cara alunna Emma Fabini”.

Mentre parlavo mi immedesimavo, immaginando la piccola al primo anno di liceo tra i banchi, le prime versioni di greco e di latino. Me la sono immaginata mentre si applicava nello studio, ho pensato al futuro tradito da una colpevole disgrazia, mi sono commosso a leggere “cara alunna”, parole magari scelte da un insegnante che derogava al suo aplomb di educatore e diventava goffamente affettuoso nei confronti di una bimba morta nel calca. Questo mi sono immaginato mentre facevo la diretta. E per la prima volta nella mia vita professionale, proprio in diretta, mi sono emozionato. Solo un secondo, però. Poi mi sono ripreso subito: la voce chiara, nitida, senza incertezze.
Ma la sorte, con un tempismo beffardo, ha voluto che proprio in quell’istante arrivasse il carro funebre, superandomi mentre camminavo e fermandosi proprio pochi metri davanti a me.

Eleonora Girolimini al mare con le sue bambine

La madre che scendeva sorretta da qualcuno, la bara bianca, i fiori. E l’emozione ha preso di nuovo il posto del distacco necessario a chi, per lavoro, si trova spesso a raccontare tragedie. Ho accompagnato la bara con le mie parole che descrivevano quegli istanti, ciò che avevo davanti agli occhi. La voce ha stentato ancora qualche volta ad essere sicura e distaccata. La linea allo studio. Fine del collegamento.

In questi giorni ho riflettuto molto su quel momento. Non è la prima volta che racconto simili fatti di cronaca. Cosa mi ha reso più vulnerabile? Non so, forse la giovane età delle vittime, o semplicemente sto invecchiando, forse mi sono avvicinato troppo a quel dolore non mio. Forse… forse. Chi lo sa? Probabilmente quel dolore non era mio, ma neanche solo dei familiari delle vittime. Forse quel dolore apparteneva ad un’intera comunità e quindi mi ha contaminato perché attorno a me c’era solo sofferenza. Non so. 
E’ stato a quel punto che ho serrato i ranghi e mi sono detto: “La trasferta non è ancora finita. Ora professionalità e distacco”.
Sei funerali in tre giorni. Tre quelli che ho seguito di persona. E’ stata dura. 

Una figlia di Eleonora Girolimini bacia la bara della mamma

Famiglie distrutte, amici inconsolabili, testimoni di quel fatto traumatizzati per la vita. Sabato 15 dicembre gli ultimi due funerali, quello di Benedetta, 15 anni, di Fano, arrivata in discoteca con la navetta e quello di Eleonora Girolimini, 39 anni, originaria di Senigallia, mamma di 4 piccoli che aveva portato la figlia a quel concerto, per stare più tranquilla, per poterla controllare – o proteggere – come poi è stato necessario fare. Il suo figlio più piccolo ancora prendeva il latte. E’ morta nella calca cercando di salvare Gemma, 11 anni.
È morta con ancora il latte nel petto.

Paolo Curi, l’ultimo saluto alla moglie

Neanche il suo funerale dimenticherò mai. Tantomeno dimenticherò suo marito Paolo Curi che il giorno dell’addio uscendo dalla Cattedrale di Senigallia ha cercato di sorridere a chi era lì per l’ultimo saluto alla donna della sua vita che gli aveva dato tre femminucce e un maschietto. Mai dimenticherò una delle sue bimbe – avrà avuto quattro anni – che, rivolta ai presenti, indicava la bara della mamma e diceva, quasi inconsapevole: “C’è mamma lì”. Mai dimenticherò il suo bacio a quella bara. Chissà se glielo ha detto qualcuno di darlo o se l’ha fatto d’istinto. Magari ha visto altri e lo ha fatto anche lei. Un gesto così innaturale, poggiare le labbra su quel legno duro. Un gesto innaturale, ma dolcissimo, soprattutto quello successivo: la bimba che si fa indietro e stringe a sé la foto della mamma guardando la bara. Non dimenticherò mai quella scena. Mai. 

Una figlia di Eleonora Girolimini stringe a sé la foto della mamma

Come mai dimenticherò quella stessa piccolina vestita di rosso che vicino al papà, mentre il carro funebre si prepara alla partenza, dice:  “Stanno portando via mamma”. E nemmeno dimenticherò le parole del suo papà che le risponde “No, la mamma resterà sempre con noi”. Mai dimenticherò le parole di questo padre. 
E’ ciò a cui, da giorni, non riesco a non pensare. E che ho dovuto tradurre in parole scritte, forse per farlo uscire da me.

Natale 2018. Questo il Natale delle famiglie delle vittime. Questo il mio Natale, anche se figli non ne ho. E per fortuna, perché se quei figli fossero stati miei, sarei morto di dolore. Paolo non può morire di dolore. Neanche questo lusso. Paolo deve crescere quattro figli da solo: e il più piccolo, ancora, prendeva il latte dalla mamma.

 

L’INTERVISTA ALL’AMICO: NON DIMENTICHERO’ CIO’ CHE E’ SUCCESSO FINO A QUANDO NON MORIRO’ ANCHE IO