Bossetti in croce per le frasi sul padre di Yara Ma chi indagava aveva pensato la stessa cosa

IL MURATORE DI MAPELLO IN UDIENZA CRITICA IL PADRE DI YARA PERCHE’ ASSENTE DURANTE LE RICERCHE DELLA FIGLIA. I GIORNALI ATTACCANO BOSSETTI PER LE SUE FRASI. MA AI TEMPI IN TANTI DICEVANO LA STESSA COSA, FORZE DELL’ORDINE COMPRESE.
GLI INVESTIGATORI MISERO “CIMICI” NELLA CASA DELLA FAMIGLIA GAMBIRASIO E DEFINIRONO L’ATTEGGIAMENTO DI FULVIO “ANOMALO”

Yara Gambirasio e Massimo Bossetti

di Enrico Fedocci

Ora mi salteranno tutti addosso. Perché non si può neanche pensare la cosa che sto per scrivere: era novembre del 2010, da Brembate Sopra (Bg) era scomparsa una ragazzina, Yara Gambirasio. Rapita? Uccisa? Allontanata volontariamente?
In quei mesi, prima del ritrovamento del corpo, il mistero era fittissimo. La protezione civile, i carabinieri, la polizia, i volontari. Tutti a cercarla. E noi, i giornalisti, dietro a loro per documentare con le telecamere i grandi sforzi di tutta la comunità per ritrovare la bambina.
Di lei non c’era alcuna notizia, nessun appiglio per orientare le ricerche. Quindi, si cercava a caso, ma in maniera capillare. Dappertutto: case abbandonate, edifici in costruzione, stazioni, prati, boschi, specchi d’acqua. Davvero ovunque.

C’era un freddo che ti mangiava i muscoli. Io partivo da Milano per andare a Brembate Sopra alle 6 e mezza di mattina e rimettevo piede in casa alle 21.30, se non c’erano dirette con le trasmissioni serali. Così per 45 giorni di seguito. Natale e Capodanno compresi. Una volta a casa, la sera, a letto senza mangiare per quanto ero stordito dal gelo. Poi daccapo il giorno dopo: la diretta con il Tg5 delle 8, il collegamento con Mattino 5, i tg del pranzo.

Poi, proprio nel pomeriggio quando si aveva un po’ di stacco dalle dirette e dalle edizioni del telegiornale, si andava con il cameraman al seguito dei volontari, in attesa del tg serale. Si documentava ciò che facevano.  Già che eravamo lì, si dava anche noi un’occhiata intorno. Pensavo a quanto fosse facile tralasciare una buca o un cespuglio. Magari proprio lì poteva essere stato nascosto qualcosa. I volontari erano encomiabili, ma era umanamente impossibile guardare ovunque. E se in quel fosso o in quell’altro non si fosse guardato bene, quel pezzetto di territorio sarebbe stato comunque archiviato tra quelli controllati. Non è un caso che Yara sia stata trovata dove le ricerche erano già passate.

Fulvio Gambirasio

Il lavoro della protezione civile di Brembate Sopra, coordinato dall’alpino in pensione Giovanni Valsecchi, era preziosissimo, ma era come cercare un ago in un pagliaio.

Ricordo la frase un po’ cinica, ma realistica, di un collega inviato di un importante quotidiano: “Con i primi caldi  Yara la troverà un cacciatore, per caso, da qualche parte…”.
Ma ricordo anche che – tra una battuta di ricerca e l’altra – anche io ero concentrato a dare il mio contributo di attenzione mentre riprendevamo con la telecamera e raccontavamo lo sforzo degli altri. E proprio mentre cercavo la piccola, pensavo, tra me e me: “Come mai il papà di Yara non viene? Se io fossi lui, se fosse mia figlia, vorrei essere certo che i volontari guardino ovunque. E solo con la mia presenza potrei accertarmene. Uscirei la mattina presto e tornerei la sera tardi, cercando di motivare gli altri con la mia forza e la mia speranza”.

Interrogativi a cui io stesso davo una risposta: “Ognuno reagisce a suo modo. Non si può mai giudicare.”
Ma che Fulvio Gambirasio andasse a giocare al videopoker in quelle ore era strano e, proprio questa cosa – non andare a cercare la figlia e dedicarsi al gioco delle macchinette – aveva attirato anche la curiosità delle forze dell’ordine che definirono l’atteggiamento anomalo. Non a caso nella villetta della famiglia della 13enne erano state messe “cimici” per intercettare le conversazioni
Sfido chiunque a dire il contrario.
In quel momento si sospettava di tutti. E tutti dovevano – giustamente – essere controllati.

Gli accertamenti e i fatti dimostrarono inequivocabilmente che quella di Fulvio Gambirasio era solo una reazione. Molto umana, peraltro, forse di rifiuto di ciò che stava avvenendo. Probabilmente dilaniato dall’ansia, dallo stress, dal dolore, cercava di tenersi su con le distrazioni a cui era abituato. Aveva altri tre figli a casa, non dimentichiamolo. Doveva pensare anche a loro.

Quel che ho tratto da quell’esperienza è che non bisogna mai giudicare le reazioni degli altri. C’è chi davanti alla morte di un congiunto si dispera, chi si chiude nel silenzio, chi reagisce uscendo subito di casa come se nulla fosse. E magari dentro di sé vorrebbe morire. Sono modi diversi per declinare lo stesso dramma.

Ma farsi le domande è legittimo. E le domande se le è fatte anche Massimo Bossetti. Durante il suo interrogatorio dei giorni scorsi ha esposto il suo ricordo di quei fatti. Un pensiero che ha attraversato la mente di molti in quei giorni. Ecco l’esatta trascrizione di ciò che ha detto il 45enne ai giudici: “Mi sono meravigliato di avere visto Fulvio Gambirasio al cantiere mentre tutti cercavano sua figlia, e ho pensato che non è un papà normale uno che fa così. Del lavoro cosa importa in questi casi. Io mi sarei comportato diversamente da lui. Sarei andato in giro con i carabinieri a cercare mia figlia. Mia figlia è mia figlia, al diavolo il lavoro. Ho pensato: questo non è un papà normale”.

Apriti cielo: tutti a dare addosso a Bossetti. “Insensibile”, “Si vergogni”, “Farabutto”, “Assassino”. Li ho visti io, in aula, gli avvocati di Parte Civile  indignarsi facendo cenno di tirare il Codice sul tavolo mentre il muratore di Mapello faceva queste considerazioni.

Ora: Bossetti potrà pure essere un assassino – per ora solo presunto – ma che non possa dire ciò che molti hanno pensato e detto proprio quando questi fatti accadevano è frutto di un atteggiamento ipocrita da cui mi dissocio con decisione.

E quindi intendo ribattere a chi si indigna per quelle parole rilanciando in prima persona, mettendoci la faccia: anche io ho pensato le stesse cose che ha detto Bossetti su Fulvio Gambirasio. E non sono un presunto assassino. Sfido tutti gli altri che le hanno dette e pensate quelle identiche cose a non nascondersi dietro al paravento dell’ipocrisia e a tirare su la mano dicendo “io c’ero” tra quelli che rimanevano perplessi per quel comportamento.
Questo episodio, accusare Bossetti di ogni male del mondo, è sintomatico di un preconcetto, paradigmatico di un modo di pensare a senso unico. In questo processo non c’è distacco. Sicuramente non c’è tra la gente. Perfino i giornalisti che dovrebbero incarnare la sobrietà e l’equidistanza dai fatti sembrano parti in una contesa.
Per giudicare Bossetti occorre equilibrio. Comincino i giornalisti a riferire le cose che sono accadute in aula esattamente per come sono accadute. Sono certo che seguirà anche la gente comune ad esprimere pareri più rilassati, di attesa.
Dando per scontato (non è una chimera!) che i giudici della Corte d’Assise non si lascino influenzare dall’opinione pubblica, dall’esorbitante costo delle indagini, da chi sta sugli spalti con il pollice verso. Emettendo, con serenità e senza pregiudizi, una sentenza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Non come è accaduto recentemente a Mestre dove Monica Busetto, incastrata dal proprio Dna finito accidentalmente nel posto sbagliato, è stata condannata a 24 anni per un omicidio che aveva commesso un’altra persona. Solo per un colpo di fortuna è stata scarcerata, con tante scuse.
E anche allora c’era chi diceva: “Non può che essere stata lei ad uccidere quell’anziana. E’ il Dna che la incastra”.