La recente assoluzione in Cassazione di Elena Romani chiude definitivamente la vicenda sulla presunta responsabilità della donna nella morte di Matilda, la figlia di due anni. Secondo l’accusa, l’hostess di Legnano aveva colpito la piccola con un calcio perché faceva i capricci, causandone la morte per spappolamento di fegato, reni e perforazione di un polmone.
Una sentenza definitiva passata quasi sotto silenzio. Purtroppo, una “non notizia” secondo i media che l’hanno relegata al taglio basso delle pagine o ridotta a boxino nelle brevi di cronaca. E, quindi, dopo il tanto clamore che aveva suscitato l’accusa, la totale estraneità di questa donna è passata in secondo piano. Cose già viste, verrebbe da dire. Peccato, perché ciò che non è stato colto è che questa sentenza chiude un capitolo, ma ne apre un altro: secondo le motivazioni d’assoluzione di secondo grado, la Romani non solo non ha ucciso la figlia e quindi non è in alcun modo responsabile della sua morte, ma secondo il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Torino le prove che discolpano lei, inchioderebbero l’ex compagno Antonio Cangialosi, presente in casa quel giorno a Roasio il 2 luglio del 2005. Avrebbe quindi ucciso lui Matilda, secondo i giudici torinesi. Inoltre, particolare non secondario, Matilda ha perso i sensi proprio mentre lui ce l’aveva in braccio ed Elena Romani era in giardino a stendere un cuscino che la bimba aveva sporcato.
I fatti: partendo dalle perizie medico legali richieste dallo stesso tribunale – e messe in relazione con la testimonianza dell’ex bodyguard – non c’è coerenza tra il racconto dell’uomo e le condizioni di Matilda nei momenti immediatamente precedenti alla morte. Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo di Cangialosi nell’infanticidio e l’invio degli atti alla Procura di Vercelli, affinché l’uomo, già rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario e poi uscito dal caso grazie a una sentenza di “non luogo a procedere”, venga processato per avere ucciso la figlia della compagna.
Il movente? Con i suoi capricci la bimba rischiava di far naufragare la relazione da poco nata con Elena Romani.
Gli avvocati della mamma di Matilda, Tiberio Massironi e Roberto Scheda, ora vanno avanti e chiedono la riapertura del caso. Il Procuratore Generale di Vercelli aveva assicurato che, nel caso di assoluzione definitiva per la mamma, il procedimento nei confronti di Cangialosi sarebbe stato riaperto. Sono passati quasi due mesi dalla sentenza della Cassazione, ma sembra che cercare il colpevole di questo delitto interessi poco i magistrati di Vercelli.
Mi sta a cuore affrontare questo caso affinchè l’inchiesta vada avanti e non lo lascerò all’oblio a cui è stato confinato dalla stampa. Io per primo, quando ho cominciato a seguire questa storia, mi ero fatto il preconcetto della colpevolezza della Romani. D’altra parte, le informazioni che uscivano dalla Procura portavano a farsi questa idea.
Si giudicava Elena Romani sulla scia del cosiddetto “Effetto Cogne”: Annamaria Franzoni aveva ucciso il figlio. Tutte le mamme, quindi, erano potenziali assassine.
Un’equazione pericolosa che però assicurava titoli di giornale più urlati e di sicura presa sul pubblico.
Poi, durante il processo, con le carte in mano, ho cominciato a rendermi conto che la verità poteva essere un’altra. Al di là delle considerazioni personali, c’è una sentenza definitiva che apre un nuovo filone giudiziario. Si indaghi e magari si assolva anche Cangialosi, se non ci sono le prove, ma il processo va fatto. Non sono io a chiederlo, ma un presidente di Corte d’Assise d’Appello. La Procura di Vercelli non può fare finta di nulla.
Su una tomba del cimitero di Busto Arsizio c’è la foto di Matilda. Con i suoi occhi blu questa sfortunata bimba sembra implorare giustizia. Per sè e per la sua mamma che in questi sei anni, invece di cercar conforto nel pianto, ha dovuto difendersi dall’accusa infamante di averla uccisa
Enrico Fedocci