Chissà che cosa pensa? Chissà che cosa gli passa per la testa mentre guarda in televisione servizi su Yara o legge sul giornale le ultime novità sul caso? Chissà che effetto gli fa vedere i titoli sul delitto, le notizie sui confronti dei Dna? Si sente il fiato degli investigatori sul collo, oppure, proprio perché lui sa che cosa è successo quel 26 novembre del 2010, prima fuori dalla palestra di Brembate Sopra e poi nel campo di Chignolo d’Isola, è tranquillo vedendo i tanti buchi nell’acqua della Procura?
In questo anno in cui mi sono dedicato al delitto di Yara Gambirasio, spesso mi sono fatto questa domanda. L’assassino potrebbe essere della zona, si è detto, e quindi mi sono sorpreso ad immaginarlo mentre cammina, libero ed indisturbato, per le strade del piccolo centro della Bergamasca. E magari, mentre qualcuno parla di quel delitto, chessò, in ufficio, a scuola o addirittura all’oratorio, anche lui potrebbe dire la sua.
Che emozioni prova un assassino in libertà? Pensa di avere commesso il delitto perfetto e si sente appagato per questo, oppure la coscienza gli rimorde?
Una domanda senza risposta. Una domanda a cui è possibile rispondere solo con delle supposizioni. E allora te lo immagini in un giorno qualunque mentre passa vicino alla palestra in cui Yara è stata vista per l’ultima volta. Chissà, forse lui stesso ora si domanda com’è possibile che nessuno abbia notato niente quella sera. Magari anche lui, tra la gente, ha preso parte al macabro pellegrinaggio nel luogo del ritrovamento del corpo, fingendo curiosità e commozione: un passo dietro l’altro verso il centro del campo e – quasi ad intervallare quella camminata – dei flashback nella sua testa con le urla di Yara che riecheggiano nelle sue orecchie, mentre davanti ai suoi occhi si ricompongono le immagini di lui stesso che la immobilizza e la colpisce, accanendosi poi con un taglierino sulla schiena, quindi sui polsi, alla fine sul fragile collo.
Che vita conduce un omicida in libertà? Potrebbe essere uno come noi, anzi, probabilmente lo è: non un mostro, a vederlo. Ma come si convive con un peso del genere sulla coscienza? Cosa si prova, da assassini, quando – magari in un bar davanti a un caffè – incroci casualmente lo sguardo spento, ma gentile, del padre o della madre di quella bimba? Che emozioni hai nel cuore quando in un momento di distratta cortesia, i genitori di Yara – così dignitosi ed educati – ti cedono il passo davanti alla porta di un negozio o della chiesa? Non puoi non guardarli senza pensare: “Sono io quello che cercate, sono io che ho ucciso vostra figlia”
E’ passato un anno da quel delitto. 365 giorni di mistero. 10 mila dna raccolti, ma a livello investigativo nessun punto fermo.
Verrebbe da dire: l’unico elemento certo è che Yara è stata uccisa. Ma, purtroppo, in questa storia gli elementi certi sono almeno due: che Yara è stata uccisa e che il suo assassino è ancora libero e forse pensa: “Non mi prenderete mai”
Enrico Fedocci